Il sarcofago del Museo Arcivescovile e le reliquie dei primi vescovi di Ravenna

L’altare maggiore della Cattedrale custodisce, da secoli, le reliquie dei santi arcivescovi ravennati.
Sarcofago del Museo Arcivescovile
Sarcofago del Museo Arcivescovile, già nella Cattedrale di Ravenna

L’altare maggiore della Cattedrale custodisce, da secoli, le reliquie dei santi arcivescovi ravennati. La Chiesa, che fin dall’inizio conosce il culto dei martiri e dei santi, confessa in Cristo il primo martire, il “testimone fedele” (Ap 1, 5). Le reliquie dei santi martiri assumono nella loro materialità il grande paradosso della speranza cristiana.

Da subito il cristianesimo ha incontrato, proprio su questa speranza di vita, inscindibile dalla possibilità di un’autentica fede, le più grandi resistenze: “Ora, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? Se non vi è resurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo mentre di fatto non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono” (1 Cor 15, 12-15). E Agostino: “In nessun altro argomento la fede cristiana incontra tanta opposizione come a proposito della risurrezione della carne”. Celebre è il passo di Minucio Felice, nell’Octavius, in risposta a chi considerava follia la resurrezione dei corpi annunciata dai cristiani: “Chi potrebbe essere tanto stolto o irragionevole da osare di mettere in discussione che l’uomo, come poté una volta esser formato da Dio, così possa di nuovo esser resuscitato? Che come egli è nulla dopo la morte, è stato nulla anche prima della nascita? E che come poté una volta nascere dal nulla, dal nulla stesso possa essere rifatto? E’ certamente più difficile il cominciare ad essere per una cosa che non esiste, che non il ritornare ad essere quello che si è già stati”.

Le reliquie dei santi, simboli visibili dell’invisibile, si collocano in quest’orizzonte determinante, anzi costitutivo, del cristianesimo stesso. Materia tangibile e visibile, proprio nella loro corruttibilità, sono segni pregnanti del mistero pasquale. E’ proprio in quella luce così vivida che brilla in ceneri oscure – parafrasando Paolino di Nola – la misura dello splendore di cui saranno rivestiti i corpi nella nuova vita.

La connessione tra le sepolture dei martiri e il luogo della celebrazione eucaristica appare evidente fin dagli inizi del cristianesimo: con la pace costantiniana e le prime traslazioni, si consolida fino a diventare un elemento costitutivo. Basti qui ricordare la traslazione voluta da Ambrogio di Milano dei Santi Gervasio e Protasio sotto l’altare, dove viene a crearsi, per la prima volta, l’unione tra la traslazione dei santi e la dedicazione della chiesa. E’ Ambrogio stesso a chiarire il nesso tra le reliquie e l’altare: “Queste vittime trionfali si avanzano verso il luogo dove Cristo è offerta sacrificale. Ma Egli, che è morto per tutti, sta sull’altare; questi, che sono stati riscattati dalla sua Passione, staranno sotto l’altare. Questo posto io avevo scelto per me, perché è giusto che un vescovo riposi dove era solito offrire il sacrificio; ma a queste vittime sacre cedo la parte destra: questo luogo era dovuto ai martiri. Riponiamo, dunque, le reliquie sacrosante, collocandole in una sede degna di loro, e festeggiamo questo giorno con fedele devozione”.

La chiesa cattedrale costituisce il cuore della vita liturgica diocesana dove l’assemblea, radunata attorno al vescovo, è convocata all’unico altare per la celebrazione dei divini misteri (Sacrosantum Concilium, n. 41).

Già Andrea Agnello, nel Liber Pontificalis Ecclesiae ravennatis, raccontando del vescovo Orso che “per primo cominciò a costruire un tempio di Dio per raccogliere, come piissimo pastore, in un solo ovile il popolo cristiano che vagava in locali isolati”, metteva in luce questo concetto del ricondurre all’unità caro a tutta la tradizione ebraico-cristiana. La Cattedrale dunque come luogo cultuale e culturale significativo, luogo dell’ekklesia.

La Basilica Ursiana di Ravenna, fondata dal vescovo Orso agli inizi del V secolo, ha avuto nel tempo una storia articolata e complessa e vari sono stati, lungo il corso del tempo, gli interventi e le stratificazioni che l’hanno interessata.

Orso è l’unico vescovo la cui sepoltura è attestata fin dall’origine nella basilica Ursiana; per tutte le altre sepolture vescovili, eccetto quelle di epoca moderna, dobbiamo parlare di traslazioni successive alle sepolture.

E’ Girolamo Rossi il primo tra gli storici moderni a trasmetterci la notizia della traslazione delle sepolture degli arcivescovi ravennati nella Cattedrale. Il Rossi ricorda l’azione di Pietro, arcivescovo di Ravenna nel X secolo: “In questo tempo l’arcivescovo Pietro, come abbiamo sopra ricordato, fece trasportare dalla chiesa di S. Probo, che era vicina al mare, a Ravenna nella basilica Ursiana i sacri corpi dei santi Aderito, Calocero, Probo, Procolo, Dato, Liberio, Agapito e Marcellino; a tutti questi santissimi arcivescovi (…) consacrò e dedicò l’altare maggiore della medesima basilica Ursiana”.

Il Sacco di Ravenna del 1512 segna un momento drammatico per la storia delle reliquie entro l’altare maggiore. Il saccheggio dell’antico ciborio d’argento e la conseguente necessità di un nuovo altare hanno ripercussioni anche sulle reliquie che, dopo essere state oggetto di profanazione, trovano degna sistemazione nel rinnovato altare.

La demolizione settecentesca dell’antica fabbrica, e la conseguente realizzazione di un nuovo altare, sono una tappa decisiva per la ricostruzione delle vicende esterne che hanno interessato le reliquie dei santi.

Un’ultima fase risale all’opera di Mons. Mazzotti, il quale, spostando nel 1961 all’interno del Museo Arcivescovile il sarcofago-reliquiario conservato entro l’altar maggiore per collocarlo nelle collezioni del Museo Arcivescovile, modificò l’assetto dell’altare settecentesco e delle reliquie ivi contenute, nel modo che ancora oggi vediamo.

Giovanni Gardini

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